Questo è il mio tavolo. Non è sempre uguale. A volte è ordinato, a volte no. A volte sembra quasi silenzioso, altre volte sembra parlare troppo. Su questo tavolo convivono cose diverse: un ricamo lasciato a metà, un libro aperto con una pagina segnata, una forbicina che aspetta, una lampada accesa quando fuori è già buio, piccoli oggetti che non hanno fretta di essere spostati. C’è chi chiamerebbe tutto questo disordine. Io lo chiamo vita in corso.
Qui ricamo, qui leggo, qui penso. Qui lascio sedimentare le giornate, una alla volta. La luce della lampada non è mai troppo forte, serve solo a creare un angolo protetto, un piccolo cerchio dove il tempo rallenta. Il resto della stanza può anche restare in ombra, non tutto ha bisogno di essere visto. A volte su questo tavolo regna l’entropia: fili che si intrecciano, appunti sparsi, pensieri che non sanno ancora dove andare. Altre volte c’è una sorta di ordine gentile, imperfetto, fatto di gesti ripetuti e familiari. Io mi muovo tra queste due cose senza forzare nulla.
Ho imparato che non devo sistemare tutto subito, che non devo fare spazio per forza, che anche il caos ha un suo modo di respirare. Questo tavolo mi assomiglia. Non è esibito, non è pensato per essere guardato, è pensato per essere vissuto. Qui non cerco risultati, ma presenza. Un punto dopo l’altro, una pagina dopo l’altra, un pensiero che si posa senza rumore. Se qualcuno si fermasse a guardarlo davvero, forse non capirebbe subito, ma chi sa ascoltare riconoscerebbe qualcosa: la lentezza, la cura, la necessità di stare in un posto sicuro mentre il mondo fuori corre. Questo è il mio tavolo. E, in fondo, questo sono io.



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